San Giuseppe a Casacalenda

Tavole

19 MARZO

San Giuseppe


Il cristianesimo delle origini non assegna particolare rilievo a Giuseppe, brevemente menzionato da Matteo e Luca all’inizio dei loro vangeli, come personaggio di sfondo dell’infanzia di Gesù. La sua figura comincia a delinearsi soltanto nei vangeli apocrifi, in particolare nel Protovangelo di Giacomo, databile alla metà del II secolo. Le virtù del padre putativo di Cristo vengono citate, tra il il IV e V secolo, dai dottori delle chiese d’oriente e d’occidente. Il culto di San Giuseppe è documentato in un manoscritto del secolo VIII, proveniente dall’abbazia benedettina dell’isola di Reichenau, nel lago di Costanza, che ne fissa la commemorazione al 20 marzo.

In oriente la festa di San Giuseppe viene menzionata nei calendari verso il X secolo. Ricordiamo in proposito il Menologio di Basilio II, dal nome dell’imperatore committente, e composto da Simeone Metafraste verso la fine dell’anno 1000. Giuseppe compare più ampiamente nelle descrizioni del Codice Arundel 404, detto anche Liber de Infantia Salvatoris o Natività di Maria e di Gesù, vangelo apocrifo del XIV secolo, considerato una variante del Protovangelo di Giacomo. Questo testo attribuisce la funzione di “nutritore” al padre putativo di Gesù, e ne sottolinea le virtù di uomo caritatevole verso i più bisognosi.

Il suo culto si rafforza tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV, per opera di predicatori come Bernardino da Siena, che riconferma la funzione di Giuseppe, definendolo “fedele nutrizio e custode”. L’assegnazione della data del 19 marzo per la commemorazione del santo è stabilita da Gregorio XV nel 1621. Nel Settenario di meditazioni in onore di S. Giuseppe Alfonso Maria de’ Liguori riporta un racconto relativo alla consuetudine, di un mercante di Valenza, di invitare a pranzo, a Natale, un vecchio e una puerpera con un neonato, in onore della Sacra Famiglia: «Narra il P. Patrignani… che un certo mercante della città di Valenza soleva ogni anno nel giorno di Natale invitare a mensa un vecchio ed una donna che allattasse un bambino in onore di Gesù, Maria e Giuseppe. Questo divoto apparve dopo sua morte a chi pregava per lui, e gli disse che nell’ora del suo passaggio furono a visitarlo Gesù, Maria e Giuseppe, con dirgli: “Tu in vita ci riceveresti in persona di quei tre poveri in casa tua, ora siam venuti per riceverti in casa nostra”. E che ciò detto, l’aveano condotto in paradiso».

Il rapporto tra la figura di Giuseppe e il cibo, considerato come nutrimento e aiuto per i più bisognosi, bambini o poveri, si esprime ancora nell’allestimento di tavole imbandite e la condivisione di particolari alimenti, in occasione della sua ricorrenza. Questa tradizione propone, in chiave di devozione popolare, alcuni elementi propri dell’agape che, nel cristianesimo primitivo, è la cena condivisa dai cristiani, con la guida di un celebrante, in determinati giorni, per ricordare l’ultima cena di Gesù. In origine l’agape ha un doppio contenuto, eucaristico e caritativo, in seguito si differenzia in due fasi: un banchetto serale per i poveri e la celebrazione eucaristica della mattina. Il termine greco agape corrisponde al latino charitas, che indica l’amore fraterno e disinteressato, virtù primaria di Giuseppe.

La tradizione delle tavole di San Giuseppe, diffusa in area meridionale (Sicilia, Puglia, etc.), è ampiamente presente in numerose località del Molise. Situandosi nel periodo iniziale della primavera, questa usanza sembra indicare il risveglio della natura, attraverso la celebrazione di una figura, solitamente in ombra come quella di San Giuseppe, portatore di abbondanza e nutrimento dopo la lunga sospensione invernale. Il santo, discreto ma forte, esce dal suo silenzio e dalla sua connotazione di forzata castità per rientrare in un festoso elargimento di cibo vitale, che lo ricolloca in una dimensione di ritrovata fecondità. Sembra in tal modo che si sciolga ogni dubbio sulla capacità generativa di Giuseppe, imposta dal racconto evangelico: è la natura stessa a restituirgli pienamente la funzione di padre primaverile, nella triade originaria della Sacra Famiglia, base della società umana. È a lui che si chiede sicurezza, solidità, abbondanza e protezione, nella certezza della paternità, intesa come professione di responsabilità verso i propri e gli altrui figli.

Paradossalmente Giuseppe, uomo casto per eccellenza, viene vissuto come colui che nutre e dà vita, una sorta di padre primordiale, che nella rinuncia rafforza il valore del suo seme. Pertanto la celebrazione di Giuseppe richiede il dispiegamento dei beni alimentari, in un agape solidale e aperto alla comunità, espressione di generosità disinteressata e rievocazione eucaristica nel tempio domestico, dove la Sacra Famiglia si affranca dalla povertà della grotta e acquisisce la dimensione regale che le è dovuta. Dunque la tradizione prevede un dovizioso e complesso allestimento di cibi e vivande, che varia di località in località, ma che generalmente comprende un certo numero di portate, da 13 a 19.

La festa di San Giuseppe a Casacalenda

A Casacalenda (Campobasso), il 18 marzo, ci si riunisce accanto all’altare innalzato in onore di San Giuseppe, cantando le litanie alla Beata Vergine (tènìie). La preparazione del cibo, effettuata secondo precise regole tramandate oralmente, ha inizio già la vigilia della festa. Le tredici portate sono costituite prevalentemente da legumi e da altri ingredienti. Nelle pignatte poste nel camino si cuociono i legumi, e si prega dinnanzi agli altari multicolori dedicati al santo. Gli altari, riccamente addobbati, hanno al centro quadri o piccole statue rappresentanti la Sacra Famiglia. Il giorno della ricorrenza le donne offrono il pane benedetto, l’alimento base della vita, che porta impressa nel centro l’impronta della mano del santo, e allestiscono le tavole: la prima è per la Sacra Famiglia, che sarà circondata da bambini, chiamati “angeli”; la seconda è dedicata agli altri commensali.

Secondo la tradizione il pranzo prevede: fette di arance condite con olio di oliva e zucchero e sottaceti in agrodolce; fagioli; ceci; piselli; cicerchie; fave; granchi; lumache; riso; baccalà gratinato; verdure; maccheroni con la mollica; infine frutta e dolci. Il pranzo è preceduto dalla recita di preghiere, che viene ripetuta ad ogni portata e alla conclusione. Oggi le persone che rappresentano la Sacra Famiglia, un vecchio, una donna e un bambino, non sono necessariamente poveri, l’usanza infatti ha perso nel tempo la primaria funzione caritatevole ed ha accentuato i suoi caratteri di fraternità e solidarietà, espressi essenzialmente nella condivisione dell’agape. La consumazione del cibo prevede determinati comportamenti: mangiare con le mani i maccheroni conditi con la mollica, accettare tutte le portate senza lasciare resti nel piatto, spezzare il pane con le mani.

Testo e adattamento: E. De Simoni (tratto da Patrimonio immateriale del Molise)


Foto: E. De Simoni e D. D’Alessandro (19 marzo 2006)
Archivio Fotografico dell’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia